Il legislatore penale, attraverso il provvedimento previsto dall'articolo 270-sexies del Codice penale, ha ritenuto necessario fornire una specifica direttiva riguardante la qualificazione di una condotta come terroristica. Questo intervento è stato necessario per colmare una lacuna legata all'assenza di una definizione precisa del concetto fino al 2005. La disposizione normativa menzionata sostanzialmente conferma la definizione precedentemente introdotta a livello comunitario con la Direttiva 2002/475/GAI, come modificata dalla Direttiva 541/2017/UE. Tale disposizione limita la sua applicazione ai nove atti intenzionali descritti all'articolo 3, che vengono commessi esclusivamente in tempo di pace. È importante notare che questa direttiva conferma esplicitamente l'applicazione delle regole del diritto internazionale umanitario ai casi di "attività delle forze armate in tempo di conflitto armato", così come alle "attività svolte dalle forze armate di uno Stato nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali". La distinzione tra le due forme di violenza terroristica sembra essere giustificata se si considera la diversa gravità e la differente natura del "terrorismo" presente nei due contesti. Nei contesti di conflitto armato, infatti, un'azione è considerata terroristica se mirata contro civili (o, più precisamente, "non combattenti") colpiti da tale atto. Questo principio rispecchia le regole dello jus in bello, che vietano negli scontri armati gli attacchi diretti contro civili o persone non coinvolte nel conflitto, e in ogni caso volti a seminare terrore. Inoltre, sono vietati gli attacchi indiscriminati e quelli mirati contro una popolazione come rappresaglia. In ogni caso, l'obiettivo di questa normativa è quello di limitare il più possibile gli effetti "collaterali" degli attacchi rivolti agli obiettivi militari, imponendo il rispetto del principio di proporzionalità, interpretato insieme al principio di precauzione. In tempo di pace, invece, la qualifica soggettiva della vittima dell'atto illegale risulta quasi trascurabile, mentre emerge la finalità effettivamente perseguita dall'atto come criterio determinante per la sua natura terroristica. Al di là dell'utilizzo di termini legati al contesto bellico, come "civile", "ostilità" e "conflitto armato", che servono esclusivamente a definire il contesto in cui l'atto terroristico si manifesta appieno, e che sono tutti presenti nella definizione convenzionale ma assenti in quella contenuta nell'articolo 270-sexies del codice penale, sembra comunque che anche nel caso della nozione di terrorismo in tempo di guerra non si possa evitare l'individuazione della finalità dell'atto. Va riconosciuto che il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia ha attribuito particolare importanza al requisito soggettivo intenzionale come criterio per qualificare un atto come "crimine internazionale di guerra o contro l'umanità", nonostante l'assenza di una norma definitiva specifica nello Statuto della Corte. Il Tribunale ha definito il terrorismo come "reato specifico di uccisione e ferimento di civili in tempo di conflitto armato con l'intenzione di infliggere terrore sulla popolazione civile". In tal senso, ha escluso la considerazione come atto terroristico di una condotta perpetrata durante un conflitto armato, a meno che non vi sia un'intenzione diretta di causare terrore alla popolazione civile, anche se tale azione causa effettivamente danni ai civili. Ragionando in questo modo, si dovrebbe escludere la natura terroristica di atti perpetrati in un contesto di conflitto armato da parte di combattenti considerati irregolari, come i movimenti di liberazione nazionale, a meno che non vi sia una dimostrazione della presenza di un clima di terrore prodotto nei confronti della popolazione, anche se solo come effetto collaterale. Questa interpretazione è stata sostenuta da una giurisprudenza interna di merito, che ha ritenuto che tali comportamenti dovrebbero essere classificati come crimini di guerra o crimini contro l'umanità, poiché non esiste un "crimine di terrorismo" in tali contesti. Questo evita una estensione ingiustificata della nozione di terrorismo anche in tempo di guerra, che potrebbe compromettere i principi dello jus in bello e potrebbe essere attraente per coloro che sostengono una lotta al terrore su vasta scala. Questa decisione contrasta con una sentenza precedente della Corte di legittimità, che invece aveva ritenuto ammissibile la qualificazione di tali comportamenti come terroristici basandosi unicamente sul clima di terrore, senza necessità di dimostrare una intenzione diretta, bastando la presenza di effetti, anche se collaterali, sulla popolazione. Quel che emerge, in ogni caso, è la difficoltà di definire un atto terroristico in modo diverso da quello che si basa sul suo obiettivo finale, indipendentemente dal contesto di guerra o di pace in cui si manifesta.
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