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Il giudizio di uguaglianza-ragionevolezza


Il giudizio di uguaglianza-ragionevolezza

È oramai assunto indiscutibile che il canone della ragionevolezza sia sorto «nell’ambito del giudizio sull’uguaglianza delle leggi», i cui rapporti con quest’ultimo «sono venuti alla luce solo in maniera graduale e non sempre secondo uno sviluppo storico lineare»5. Ed è altrettanto noto che nelle prime decisioni di incostituzionalità, aventi come parametro l’articolo 3 Cost., era presente l’eco della «teoria espositiana della pari forza ed efficacia della legge», tesa a garantire la discrezionalità legislativa. Nella prima fase, la giurisprudenza costituzionale ha adoperato, infatti, un’accezione ristretta del principio di uguaglianza, inteso soltanto come divieto di disparità formali. E su tale base riteneva che integrassero una violazione dell’art. 3 Cost. soltanto le leggi ad personam, le discriminazioni riconducibili ai criteri espressamente sanciti dallo stesso articolo o, infine, i casi di assimilazione e diversificazione di trattamento per situazioni considerate dallo stesso legislatore, rispettivamente, diverse o uguali. Alla base della giurisprudenza dei primi anni era presente la preoccupazione di garantire la discrezionalità del legislatore, come inequivocabilmente si legge nella sentenza n. 3 del 1957: «la valutazione della rilevanza delle diversità di situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da regolare non può non essere riservata alla discrezionalità del legislatore, salva l'osservanza dei limiti stabiliti nel primo comma… [dell’] art. 3». E ciò perché «questo principio non va inteso nel senso, che il legislatore non possa dettare norme diverse per regolare situazioni che esso ritiene diverse, adeguando così la disciplina giuridica agli svariati aspetti della vita sociale. Ma lo stesso principio deve assicurare ad ognuno eguaglianza di trattamento, quando eguali siano le condizioni soggettive ed oggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono per la loro applicazione». Ma ben presto la posizione della Corte costituzionale, accorta a che la sua verifica non trasmodasse in un controllo sull’esercizio della funzione legislativa, si viene attenuando. E, infatti, già la sentenza n. 53 del 1958, nella quale il giudice delle leggi pure dichiara di rimanere saldamente nel solco della propria giurisprudenza, si configura come una vera e propria «svolta». In questa decisione la Consulta afferma che dalla propria giurisprudenza emerge anche l’implicita affermazione che a situazioni diverse non può essere imposta un’identica disciplina legislativa. La violazione del principio d’uguaglianza viene integrata, infatti, anche pareggiando «situazioni che sono oggettivamente diverse». E – continua la Corte – l’affermazione che la valutazione delle diverse situazioni, riservata al potere discrezionale del legislatore, è sottratta al giudizio di legittimità costituzionale non viene contraddetta e «né si compiono valutazioni di natura politica, e nemmeno si controlla l’uso del potere discrezionale del legislatore, se si dichiara che il principio dell’eguaglianza è violato, quando il legislatore assoggetta ad una indiscriminata disciplina situazioni che esso stesso considera e dichiara diverse». Questo è stato, in altri termini, il primo passo verso l’introduzione della «valutazione di ragionevolezza del trattamento discriminatorio», che era destinato a trasformare l’art. 3 Cost. in uno strumento di garanzia di fronte all’irrazionalità dell’ordinamento, facendo assumere all’uguaglianza – e nonostante la deferenza formale ancora dimostrata dalla Corte verso il pieno rispetto della discrezionalità legislativa – la veste di strumento di controllo della discrezionalità legislativa. Processo che viene definitivamente portato a compimento nella sentenza n. 7 del 1962, nella quale la Corte afferma che «mentre è da ritenere implicita nel principio predetto l’esigenza di disporre trattamenti differenziati per situazioni obiettivamente diverse, rimane, tuttavia, aperto al giudice della costituzionalità l’accertamento delle circostanze dalle quali si desuma l’inesistenza di ogni presupposto idoneo a giustificare la diversità del trattamento». In definitiva, questa decisione rappresenta solo la logica conseguenza del cammino già intrapreso dalla Consulta, come risulta dalle parole di Carlo Esposito il quale, in senso critico, rilevava che il giudice delle leggi ha adottato «l’interpretazione dell’art. 3 da essa preferita», affermando «il proprio potere a sindacare la arbitrarietà o la ininquadrabilità delle disposizione di legge nel sistema logico dell’ordinamento». In questa decisione, in definitiva, il giudice delle leggi mette nero su bianco quello che fino a quel momento era rimasto ancora inespresso nelle sue decisioni: il suo potere di valutare se la scelta di introdurre una determinata disciplina sia o meno giustificata mediante una valutazione che non si chiude nei confini di quanto dalla legge è astrattamente previsto, ma che si estende alle valutazioni delle fattispecie concrete e ai loro profili di analogia, in modo da valutare se la compiuta parificazione o diversificazione legislativa sia o meno giustificata. Superata in tal modo l’interpretazione restrittiva della portata precettiva dell’art. 3 Cost., la Corte ha recepito quelle indicazioni dottrinarie espresse, fra gli altri, da due grandi maestri, Crisafulli e Mortati, che avevano auspicato il superamento della concezione formale del principio in parola a favore di un controllo più penetrante delle scelte legislative. Dal momento in cui la Corte ha iniziato a declinare l’uguaglianza come non contraddizione delle scelte legislative, e seppure mediante un percorso che non ha avuto un andamento lineare, che ha registrato diverse battute di arresto, passi indietro e, in definitiva, è risultato tendenzialmente asistematico, il giudizio di uguaglianza diviene la forma argomentativa più utilizzata dalla Corte e, alla luce dell’evoluzione successiva, può dirsi che ha assunto la veste di «livello minimale del sindacato di ragionevolezza». Il giudizio di uguaglianza-ragionevolezza si configura comunemente come un giudizio «trilaterale», nel quale sono presenti tre termini: la norma oggetto, il parametro e il tertium comparationis. La valutazione non si svolge, infatti, secondo uno schema binario, in cui si instaura un confronto fra la norma impugnata e il parametro di costituzionalità, ma è necessario un elemento di raffronto, per mezzo del quale valutare la ragionevolezza della disciplina legislativa posta al vaglio di costituzionalità. Come è stato messo in luce, il giudizio di uguaglianza-ragionevolezza permette, da un lato, di dichiarare l’incostituzionalità di una norma, speciale o derogatoria, che ingiustificatamente pone delle differenziazioni rispetto alla disciplina generale, richiamata come termine di comparazione e, dall’altro, di dichiarare l’incostituzionalità di normative che risultano sotto-inclusive o sovra-inclusive. Di norme, cioè, che non ricomprendono nel loro ambito di applicazione casi che pur sarebbero dovuti essere inclusi – in tal modo discriminando fattispecie analoghe – o, viceversa, di norme che – parificando fattispecie che difettano dei caratteri di analogia – ingiustificatamente si applicano a casi che sarebbero dovuti essere esclusi. Da questa sommaria descrizione risulta chiaramente, da un lato, l’atteggiarsi della ragionevolezza a «“costola” del principio di eguaglianza, seppure intendendo quest’ultimo in un’accezione ampia, come principio di coerenza del sistema» e, dall’altro, la natura relazionale del giudizio di uguaglianza-ragionevolezza che – aspetto forse ancora più importante – mantiene «una generale “deferenza” nei confronti delle valutazioni legislative, privilegiandosi in tal modo strumenti di sindacato», che non ricorrono, o che almeno apparentemente non ricorrono, al momento valutativo. In un’accezione minima, pertanto, la ragionevolezza assolve al ruolo di strumento di controllo della coerenza dell’ordinamento e questo ha formato l’alveo nel quale è stata saldamente ricondotta dai primi contributi dottrinari, i quali hanno indagato la ragionevolezza quale fenomeno autonomo rispetto all’uguaglianza.



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