La violenza domestica è da sempre un tema spinoso che oggi più che mai rappresenta un grave problema per la società, sia a causa della sua notevole diffusione a livello globale, sia perché gli episodi di violenza spesso sono precursori di delitti più gravi, quali ad esempio l’omicidio. È un argomento che per molto tempo ha costituito un tabù, poiché il legame affettivo con la persona autrice del reato spesso spinge la vittima a non denunciare, oltre a creare forte dissenso nell’opinione pubblica, dovuto all’idea di denunciare un componente della propria famiglia. Negli ultimi anni le denunce per maltrattamenti familiari hanno subito un notevole incremento, complice il periodo covid-19, registrandosi rispetto al 2019 un incremento dell’11%. Interessato ne è il rapporto di coniugio, ma anche il rapporto genitori/figli, ed il rapporto tra fratelli. Nell’80% dei casi registrati in Italia, la vittima di maltrattamenti è una donna. All’art. 572 c.p. (“maltrattamenti contro familiari e conviventi “), del nostro ordinamento è sancita la fattispecie di reato, di natura delittuosa concernente la violenza domestica, che punisce il responsabile con la reclusione da 3 a 7 anni , se avvenuto in presenza o in danno di un minore, di un disabile, di una donna in gravidanza o con armi la pena aumenta della metà, e se dal fatto deriva lesione grave da 7 a 15 anni, se ne deriva la morte da 12 a 24 anni. Con il termine “violenza domestica” si fa riferimento a dei comportamenti abusivi e/o lesivi della persona, messi in atto da un soggetto nei confronti di un altro soggetto, facente parte del suo stesso nucleo familiare o di un convivente (inteso come soggetto estraneo al suo nucleo ma con il quale vi sia condivisione degli spazi comuni) che si verificano nel contesto domestico in maniera ripetuta nel tempo. Con la recente sentenza n. 26342/2023 della Corte di cassazione, 1^ sez. penale, è stato posto l’accento sul requisito dell’”abitualità”. Per configurarsi reato è fondamentale il requisito dell’“abitualità” delle condotte violente poste in essere dal soggetto, quindi gli episodi occasionali non hanno rilevanza penale. Dunque, il reato consiste in una concatenazione di atti: ciascuna condotta successiva di maltrattamento si sommerà alla precedente, costituendo un unitaria fattispecie delittuosa. Per condotte violente si intendono tutti quei comportamenti, di natura fisica o verbale (percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni economiche, limitazioni della libertà personale, umiliazioni di vario genere) atti all’offesa della dignità umana. Oltre ai fatti commissivi elencati precedentemente, con sentenza n. 10940/2023, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione inoltre specifica che le condotte oggetto di reato di maltrattamenti familiari possano anche essere di natura omissiva, qualora il soggetto agente rivesta una figura di garanzia. Quindi oltre all’ambito familiare ne è interessato anche il rapporto con il datore di lavoro, il rapporto di affidamento ai fini di cura, istruzione, vigilanza. Nell’ordinamento penale italiano per i reati minori (perseguibili solo ad istanza di parte) è possibile la remissione della querela da parte della vittima ai sensi dell’art. 152 c.p. che di norma implica l’estinzione del reato. Nella fattispecie di reato di maltrattamenti familiari, procedibile sia d’ufficio che ad istanza di parte si innescano dei meccanismi diversi, dettati dalla peculiarità del rapporto tra le parti. La vittima potrebbe decidere di ritirare la querela per timore di possibili ritorsioni, sotto minaccia (quindi la sua volontà potrebbe essere viziata), potrebbe essere mossa dalla speranza di un cambiamento o di una riconciliazione, o dal legame affettivo verso l’autore. La legge prevede quindi per il reato di maltrattamenti familiari la procedibilità d’ufficio, ovvero l’assoluta assenza del consenso della vittima; quindi, non sarebbe possibile la remissione della querela, ammessa solo per i reati minori. Ad ogni modo, qualora in un momento antecedente alla condanna la vittima decida di ritrattare le accuse, e sia dimostrata la volontà di riconciliazione delle parti, la "remissione della querela", accompagnata da una rappresentazione della situazione che tende alla riqualificazione della fattispecie di reato, e che lo privi appunto del requisito di “abitualità” che lo fa sussistere, può costituire un essenziale elemento per far cadere il capo d’accusa. L’impossibilità di remissione della querela per i reati gravi, come i maltrattamenti familiari, ha l’obiettivo di proteggere la vittima e altri membri vulnerabili della famiglia, come i minori. Poiché la decisione di ritirare la denuncia, in alcuni casi, potrebbe rischiare di perpetuare il ciclo di violenza, lasciando l’aggressore impunito per le proprie azioni, e potendo sfociare in dinamiche ben peggiori, come l’omicidio. È necessario precisare, inoltre, che la vittima che ritratti le proprie accuse si espone al rischio di essere denunciata dalla controparte per calunnia (ex art. 368 c.p.), punibile con la reclusione da 3 a 6 anni e per diffamazione (ex art 595 c.p.), punibile con reclusione da 6 mesi a 3 anni.
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