L’art. 9 della legge n. 194/1978, ai commi 1 e 3, riconosce al «personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie» il diritto di sollevare obiezione di coscienza, astenendosi dalle «procedure e le attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza». Tale diritto viene dunque riconosciuto innanzitutto ai medici, specialisti e non, dipendenti degli ospedali e delle altre strutture specificamente individuate dall’art. 8, l. n. 194/’78, nonché ai liberi professionisti che, in qualità di medici di fiducia, possono essere chiamati ad adempiere agli obblighi informativi e al rilascio della certificazione previsti dall’art. 5. Discussa è la possibilità di ricomprendere tra i soggetti cui si rivolge il disposto normativo anche gli appartenenti alle strutture individuate dall’art. 8 che esplichino funzioni igienico-organizzative (ex primari, oggi dirigenti in posizione apicale, direttori sanitari) o di gestione: posto il divieto della c.d. obiezione di struttura previsto al comma 4 dell’art. 9, appare condivisibile quell’orientamento dottrinale che esclude la possibilità per i medici suddetti di avvalersi dell’obiezione. Controverso è altresì il riferimento al personale «esercente le attività ausiliarie», espressione che sicuramente ricomprende coloro che svolgono le cc.dd. “arti sanitarie ausiliarie” (e dunque infermieri diplomati, levatrici), mentre è dubbia la sua estensione al personale esercente attività ausiliarie diverse (quali portantini, inservienti, operai, ecc.) sebbene in qualche modo coinvolti nelle procedure di l'interruzione volontaria di gravidanza (IGV). Quanto all’oggetto dell’obiezione, l’art. 9 prevede al comma 1 che il personale sanitario di cui sopra possa sottrarsi dal prendere parte «alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 e agli interventi per l’interruzione di gravidanza», puntualizzando al successivo comma 3 che trattasi di quelle procedure e attività «specificamente e necessariamente dirette a determinare» l’IVG, ad esclusione dell’assistenza antecedente e conseguente all’intervento. Centrale appare l’interpretazione dei due avverbi contenuti al terzo comma: ciò porta la dottrina maggioritaria ad escludere - dall’ambito oggettivo dell’obiezione – le funzioni dei medici dell’accettazione e di quelli che forniscono un’assistenza generica, mentre maggiormente discussa è l’inclusione di quelle del personale addetto alle analisi cliniche, trasfusioni, anestesie et similia. Sotto quest’aspetto, se si accede alla tesi secondo la quale gli atti diretti all’IVG devono essere qualificati in senso oggettivo, come strettamente tipici dell’aborto, devono escludersi dall’obiezione – in linea di principio – tutte quelle attività che caratterizzano anche altri tipi di interventi; mentre se, al contrario, si ricorre al diverso criterio del nesso funzionale nel caso concreto, anche comportamenti comuni ad altre tipologie di interventi possono esservi ricompresi, quando siano specificamente diretti ad un’operazione abortiva. È la prima di queste tesi, tuttavia, che sembra trovar riscontro nella giurisprudenza, secondo la quale l’obiezione può avere ad oggetto solo «attività legate in maniera indissolubile con l’intervento abortivo, in senso spaziale, cronologico e tecnico, cosicché con esse non sia più data la possibilità di desistenza dalla volontà di abortire». Al criterio finalistico, l’art. 9, comma 3, ne affianca uno cronologico, escludendo dall’oggetto dell’obiezione l’assistenza antecedente e susseguente all’intervento. Quanto alla prima, viene anzitutto in considerazione il colloquio che il personale sanitario è tenuto a svolgere ai sensi dell’art. 5: secondo taluni, il medico obiettore può parteciparvi, senza incorrere nella revoca tacita prevista all’ultimo comma dell’art. 9, trattandosi di attività non univocamente diretta all’IVG, ma deve comunicare in anticipo tale sua qualifica, posto che, secondo tale dottrina, al termine del colloquio potrebbe rifiutarsi di rilasciare il documento previsto dall’art. 5, ult. comma. Di diverso avviso è tuttavia la giurisprudenza amministrativa, che ritiene irrilevante la presenza o meno di obiettori durante il colloquio ex art. 5, posto che si tratta di personale non chiamato ad espletare l’intervento di interruzione della gravidanza (né i medici dei consultori né i medici di fiducia sono infatti abilitati a praticarlo nelle sedi di cui alla norma), essendo piuttosto tenuto a mere attività istruttorie e consultive che non rientrerebbero nell’obiezione, e che dunque è tenuto ad espletare, ivi compreso il rilascio del certificato necessario per accedere all’aborto. Emblematica in proposito è stata una vicenda che ha coinvolto la Regione Lazio e le Linee di indirizzo regionali per le attività dei consultori familiari dalla stessa emanate nel 2014, intervenendo nella regolamentazione delle attività consultoriali sul presupposto che «le molteplici tematiche affrontate e la necessità di adempiere a specifici mandati legislativi (legge 194/1978) richiedono che il personale dei consultori familiari sia disposto a fornire all’utente il sostegno necessario per garantire la possibilità di scelte informate e consapevoli». Stante tale necessità e preso atto della rilevante percentuale di medici obiettori fra i medici ginecologi impegnati nelle operazioni di IVG, nelle Linee di indirizzo si precisava che «il personale operante nel consultorio familiare non è coinvolto direttamente nella effettuazione di tale pratica, bensì solo in attività di attestazione dello stato di gravidanza e certificazione della richiesta inoltrata dalla donna» di effettuare l’IVG, e che «per analogo motivo, il personale operante nel consultorio è tenuto alla prescrizione di contraccettivi ormonali, sia routinaria che in fase post-coitale, nonché all’applicazione di sistemi contraccettivi meccanici». Si chiariva, così, che le attività consultoriali legate al rilascio della documentazione necessaria per accedere all’intervento e quelle relative alla prescrizione e applicazione di contraccettivi, routinari e di emergenza, non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 9 e non possono formare dunque oggetto di obiezione di coscienza. Il provvedimento è stato impugnato innanzi al TAR Lazio. In fase cautelare, dopo il rigetto integrale dell’istanza da parte del giudice di primo grado, vi era stata una parziale sospensione degli effetti del provvedimento nella parte in cui prescrive l’obbligo per il medico operante presso il consultorio «di attestare, anche se obiettore di coscienza, lo stato di gravidanza e la richiesta della donna di voler effettuare l’IVG, ai sensi dell’art. 5, comma 4, della legge n. 194 del 1978». Il Consiglio di Stato aveva dunque scelto di non seguire l’interpretazione sistematica offerta dal TAR Puglia, che aveva negato in generale la possibilità che le attività consultoriali potessero costituire oggetto di obiezione, in quanto non specificamente né necessariamente connesse all’aborto. Diversamente, in «riferimento alla questione riguardante la prescrizione di contraccettivi, anche meccanici e post-coitali», l’istanza cautelare era stata respinta. Giunti alla fase di merito, il TAR Lazio ha respinto il ricorso proposto contro il provvedimento della Regione Lazio, ritenendo, in particolare, che si possa escludere che il «mero accertamento dello stato di gravidanza» possa «turbare la coscienza dell’obiettore, trattandosi […] di attività meramente preliminari», che non sono «legate in maniera indissolubile, in senso spaziale, cronologico e tecnico» all’intervento abortivo. Come visto, non è mai stata messa in discussione, invece, l’operatività del provvedimento regionale in punto di contraccezione. La vendita e prima ancora la prescrizione dei rimedi contraccettivi non appaiono infatti in alcun modo sussumibili nel disposto dell’art. 9, non rientrando esse in alcuna procedura in senso stretto abortiva. Riguardo all’assistenza susseguente, parte della dottrina ha ritenuto che se essa è causalmente collegata all’aborto, la relativa attività non potrebbe essere richiesta all’obiettore, ma di avviso contrario è stata la giurisprudenza di legittimità, che ha confermato la ravvisabilità del delitto di omissione o rifiuto di atti d’ufficio ex art. 328 c.p. nella condotta del medico che abbia rifiutato di prestare la propria opera nella c.d. “fase di secondamento”, nella quale, dopo la somministrazione dei farmaci abortivi, occorreva tutelare la salute della paziente durante la parte finale della procedura, in cui si ha l’espulsione del cordone ombelicale e della placenta, oltre che delle membrane amniotiche, fase che risulta particolarmente delicata per i possibili rischi di emorragia. Come ci si dichiara obiettori? L’art. 9, al comma 1, prescrive la necessità di una «preventiva dichiarazione», da comunicarsi al medico provinciale o, per il personale dipendente dell’ospedale o delle case di cura autorizzate, al direttore sanitario, entro un mese dall’entrata in vigore della legge 1943 o dal conseguimento dell’abilitazione o dall’assunzione presso uno degli enti indicati all’art. 8. Fino alla presentazione della dichiarazione suddetta, il sanitario potrà prendere parte alle procedure di IVG senza che ciò comporti la perdita del diritto di sollevare successivamente obiezione. Ai sensi del comma 2, infatti, l’obiezione può ben essere presentata al di fuori del termine precedentemente richiamato, ma in tal caso sarà operativa solo dopo il decorso di un mese. La stessa norma prevede la possibilità di una sua revoca espressa, che può intervenire in qualsiasi momento e che, secondo i più, deve essere fatta nelle stesse forme previste per la dichiarazione. Revoca che, a norma dell’ult. comma dell’art. 9, può essere anche tacita: in questo caso, essa ha «effetto immediato», qualora «chi l’ha sollevata prend[a] parte a procedure o interventi per l’interruzione della gravidanza», al di fuori dei casi di imminente pericolo per la vita della donna. In linea di massima, deve escludersi la possibilità, per il sanitario che l’abbia revocata, di sollevare nuovamente obiezione di coscienza: appare infatti condivisibile l’appunto mosso da chi fa notare che, se fosse consentito un susseguirsi di revoche e riproposizioni, l’istituto verrebbe svuotato di significato. Resta infine da sottolineare il disposto del comma 5, che prevede l’impossibilità – per il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie – di invocare l’obiezione di coscienza nel caso in cui «data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo».