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L’abuso d’ufficio, previsto dall’articolo 323 del Codice Penale

2025-07-11 10:00

Santo Sutera

Diritto Penale, abuso d’uffici, Art. 323 C.P,

L’abuso d’ufficio, previsto dall’articolo 323 del Codice Penale

L’abuso d’ufficio, previsto dall’articolo 323 del Codice Penale, ha rappresentato per decenni uno degli strumenti principali attraverso cui l’ordinamento italia

L’abuso d’ufficio, previsto dall’articolo 323 del Codice Penale, ha rappresentato per decenni uno degli strumenti principali attraverso cui l’ordinamento italiano ha cercato di contrastare l’uso distorto della funzione pubblica da parte dei soggetti investiti di poteri autoritativi. In origine, il reato si configurava in modo ampio e articolato, punendo qualsiasi comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio volto a procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale oppure ad arrecare ad altri un danno ingiusto, mediante violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero mediante l’omissione dell’atto dovuto per ragioni di interesse personale. Una formulazione così ampia ha generato, nel tempo, un elevato contenzioso, contribuendo a trasformare l’abuso d’ufficio in un “reato spia” – ossia un reato generico, utilizzato frequentemente dai pubblici ministeri all’inizio delle indagini per poi essere, nella maggioranza dei casi, archiviato o riqualificato in fattispecie più circostanziate. Il legislatore è intervenuto in modo significativo sul tema con il Decreto Legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla Legge 11 settembre 2020, n. 120, che ha inciso in maniera radicale sulla struttura del reato. La nuova formulazione dell’art. 323 c.p. restringe l’ambito applicativo del delitto ai soli casi in cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, nello svolgimento delle sue funzioni, violi specifiche regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, e ciò al fine di procurare intenzionalmente a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero di arrecare ad altri un danno ingiusto. Questo comporta l’eliminazione, dal perimetro penalmente rilevante, delle violazioni di regolamenti e di norme generiche o consuetudinarie, e pone l’accento sulla necessità che la condotta sia espressamente vietata da una norma primaria. Non solo: il dolo richiesto è quello intenzionale, con esclusione quindi della forma eventuale o del dolo generico, a ulteriore conferma del carattere selettivo e restrittivo voluto dal legislatore. Tale modifica si colloca nel più ampio contesto di un orientamento normativo volto a ridurre l’eccessiva ingerenza del diritto penale nei confronti dell’attività amministrativa, spesso penalizzata da un clima di “paura da firma” che ha paralizzato molte decisioni, in particolare nei settori strategici come l’urbanistica, gli appalti e i servizi pubblici. A seguito della riforma, infatti, le Procure italiane hanno registrato una netta contrazione delle iscrizioni nel registro degli indagati per abuso d’ufficio: secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia, si è passati da oltre 5.000 procedimenti annui a meno di 1.000, con una percentuale di archiviazioni superiore al 75%. Questo ha spinto parte della dottrina a parlare di una vera e propria “desertificazione applicativa” della norma. La successiva riforma Cartabia (D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150) ha inciso in modo meno diretto sull’art. 323 c.p., ma ha contribuito al suo ulteriore ridimensionamento pratico. In particolare, l’introduzione di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale (art. 3 del D.lgs. 150/2022), affidati ai capi degli uffici giudiziari, ha fatto sì che in molte procure il reato di abuso d’ufficio sia stato inserito tra quelli da perseguire con minore urgenza, rafforzando l’impressione che si tratti ormai di una fattispecie marginale e residuale, lontana da un’effettiva efficacia repressiva. Sul piano politico e istituzionale, la riforma ha sollevato ampie discussioni. Da un lato, i sostenitori del nuovo testo sottolineano la necessità di tutelare la libertà di azione dell’amministrazione pubblica e di ridurre l’invadenza del giudice penale nella discrezionalità amministrativa, in ossequio al principio di separazione dei poteri. Dall’altro, non mancano le voci critiche che lamentano una perdita di tutela dell’interesse pubblico e una possibile impunità per condotte che, pur essendo formalmente lecite, appaiono profondamente scorrette o clientelari. L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), in particolare, ha segnalato che molte delle condotte oggi escluse dall’ambito dell’abuso d’ufficio rientrano in quelle che alimentano fenomeni opachi e distorsivi nella gestione della cosa pubblica. Dal punto di vista sistematico, il nuovo assetto dell’art. 323 c.p. solleva interrogativi anche in merito al coordinamento con altre disposizioni del Codice Penale. Si pensi, ad esempio, all’art. 328 c.p. (rifiuto di atti d’ufficio) e all’art. 314 c.p. (peculato), che possono sovrapporsi o, in alcuni casi, assorbire fattispecie precedentemente ricondotte all’abuso d’ufficio. La tendenza generale, coerente con l’evoluzione del diritto penale europeo e internazionale, sembra essere quella di una progressiva specializzazione delle condotte punibili, con una netta distinzione tra il piano penalmente rilevante e quello disciplinare o amministrativo-contabile. In tale direzione si muovono anche gli articoli 97 e 98 della Costituzione, che pongono l’accento rispettivamente sul buon andamento e sull’imparzialità della pubblica amministrazione, valori che non necessariamente devono essere garantiti solo tramite lo strumento penale. Alla luce di quanto sopra, molti osservatori prospettano due possibili scenari futuri: da un lato, una completa abrogazione dell’art. 323 c.p., in quanto ormai svuotato di reale efficacia; dall’altro, una riformulazione più mirata e rigorosa, che consenta di sanzionare penalmente solo le più gravi ipotesi di sviamento funzionale, evitando però l’effetto “paura” che aveva caratterizzato l’epoca antecedente alla riforma del 2020. In ogni caso, è evidente che il diritto penale amministrativo sta attraversando una fase di profonda trasformazione, in cui la logica della "extrema ratio” – prevista dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e ribadita dalla giurisprudenza costituzionale – si afferma sempre più come principio-guida. Nel contesto attuale, il reato di abuso d’ufficio resta, almeno formalmente, uno strumento di tutela del corretto esercizio del potere pubblico, ma la sua concreta applicazione è ormai ridotta a casi residuali, caratterizzati da una violazione chiara, inequivoca e intenzionale di norme primarie. Il dibattito giuridico e politico resta aperto, sospeso tra la necessità di garantire l’efficienza amministrativa e l’esigenza, altrettanto forte, di assicurare trasparenza, imparzialità e legalità nella gestione della cosa pubblica.