Mauris blandit aliquet elit, eget tincidunt nibh pulvinar a. Sed porttitor.

Le foto presenti sul Blog Guttae Legis sono prese da internet, quindi valutate di pubblico dominio. Se il soggetto o gli autori dovessero avere qualcosa in contrario alla pubblicazione, basta segnalarlo alla redazione, alla mail: segreteria@guttaelegis.com

 si provvederà alla rimozione delle immagini.


instagram
youtube
whatsapp

Determinazione della pena e personalizzazione del trattamento sanzionatorio

2025-11-24 10:00

Santo Sutera

Diritto Penale,

Determinazione della pena e personalizzazione del trattamento sanzionatorio

La Gravità del reato, nella valutazione agli effetti della pena occupa una posizione di rilievo nel sistema penale italiano poiché costituisce il prin

La Gravità del reato, nella valutazione agli effetti della pena occupa una posizione di rilievo nel sistema penale italiano poiché costituisce il principale strumento attraverso cui il giudice individualizza la pena, inserendosi nel solco del principio costituzionale di proporzionalità e della funzione rieducativa della sanzione penale. La norma, sin dalla sua introduzione nel codice Rocco, assolve alla funzione di raccordo tra la cornice edittale prevista dal legislatore e la concreta applicazione della pena al caso specifico, configurandosi come una disposizione dotata di discrezionalità tecnica e non arbitraria. Essa elenca una serie di criteri che il giudice deve ponderare nella fase di commisurazione della sanzione: da un lato gli elementi attinenti al fatto, quali la natura, la specie, i mezzi, le modalità dell’azione, l’intensità del dolo o il grado della colpa, la gravità del danno o del pericolo; dall’altro quelli riferiti al soggetto agente, come i motivi del reato, il carattere del reo, i precedenti penali, la condotta di vita antecedente e successiva al fatto, nonché le condizioni familiari, sociali ed economiche. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che tali criteri non hanno un valore meramente indicativo, ma costituiscono parametri obbligati, entro i quali il giudice deve muoversi fornendo una motivazione effettiva e non meramente assertiva: la Cassazione ha infatti affermato ripetutamente che non è sufficiente il ricorso a formule di stile che si limitino a evocare genericamente la gravità del fatto o la personalità dell’imputato, essendo necessario spiegare in modo puntuale perché determinati elementi siano stati ritenuti decisivi per l’aumento o la diminuzione della pena. Allo stesso tempo, la Corte ha riconosciuto che non è obbligatorio analizzare tutti i parametri dell’art. 133, poiché è sufficiente richiamare anche un solo elemento quando questo sia soprattutto connotato da particolare pregnanza, purché il ragionamento non risulti apparente e sia comunque correlato alle circostanze del caso concreto; ciò vale, ad esempio, per la particolare intensità del dolo, per la gravità delle conseguenze del reato o per la presenza di significativi precedenti penali, sempre che questi ultimi siano valutati in relazione al loro contenuto, alla loro vicinanza temporale e al collegamento logico con il reato oggetto di giudizio, evitando ogni automatismo. In questa direzione, la Cassazione ha più volte ribadito che i precedenti non possono essere utilizzati come un indice automatico di maggiore capacità a delinquere, ma devono essere apprezzati criticamente, in conformità al principio di colpevolezza e al divieto di presunzioni assolute. La Corte costituzionale, dal canto suo, ha fornito un contributo significativo alla lettura dell’art. 133 in chiave costituzionalmente orientata, evidenziando il legame inscindibile tra la valutazione della personalità dell’imputato e il principio rieducativo sancito dall’art. 27, comma 3, Cost. Tale interpretazione ha progressivamente mitigato il portato originario della norma, che risentiva del modello criminologico del codice Rocco, fondato sulla nozione di pericolosità sociale; oggi, infatti, il giudizio sulla personalità non deve tradursi in un accertamento psicologico astratto o in giudizi moralistici, ma deve essere ancorato a dati concreti e verificabili, quali la condotta di vita, il comportamento processuale, l’eventuale risarcimento del danno e i percorsi di ravvedimento intrapresi. Numerose pronunce hanno infatti sottolineato come la condotta successiva al reato possa assumere un ruolo significativo nella determinazione della pena, ma solo qualora esprima un reale senso di responsabilità e un’effettiva volontà riparatoria, evitando interpretazioni puramente formali che svuoterebbero il parametro della sua funzione orientativa. Sul piano applicativo, tuttavia, non mancano criticità: la prassi giudiziaria mostra talvolta una tendenza all’utilizzo di motivazioni standardizzate, che finiscono per ridurre l’art. 133 a un richiamo rituale privo di reale capacità differenziante. Ciò si traduce in un indebolimento della funzione di controllo in sede di impugnazione e, più in generale, nel rischio di un’applicazione non pienamente conforme ai principi di proporzione, uguaglianza e razionalità della pena. Anche il rapporto tra l’art. 133 e le attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis c.p. è oggetto di riflessione costante: la giurisprudenza riconosce un legame funzionale tra le due norme, poiché la concessione o il diniego delle attenuanti è spesso fondato sugli stessi elementi previsti dall’art. 133, in particolare la condotta processuale e la personalità dell’imputato; ciò impone una motivazione articolata che eviti sovrapposizioni incoerenti o contraddittorie. Nel dibattito dottrinale e politico-criminale contemporaneo, l’art. 133 continua a essere al centro di proposte di riforma che mirano, da un lato, a rafforzare la prevedibilità delle decisioni giudiziali, introducendo criteri più strutturati e meno suscettibili di arbitrarietà; dall’altro, a evitare che elementi socio-economici dell’imputato assumano un peso eccessivo e potenzialmente discriminatorio nell’individuazione della pena. Altre proposte guardano alla valorizzazione della giustizia riparativa, incoraggiando il giudice a riconoscere un ruolo più incisivo agli sforzi di riparazione compiuti dall’autore del reato. In ogni caso, la maggiore sfida rimane quella di conciliare la necessità di individualizzare la pena, adattandola alle molteplici variabili del caso concreto, con il bisogno di garantire uniformità e prevedibilità delle decisioni, evitando disparità di trattamento. In conclusione, l’art. 133 c.p. si presenta come una norma di equilibrio, che richiede al giudice un esercizio misurato e motivato della discrezionalità e che continua a essere un riferimento centrale nella costruzione di un sistema penale conforme ai principi costituzionali di responsabilità personale, proporzione, uguaglianza e finalità rieducativa della pena, mantenendo intatta la sua importanza nel dialogo tra interpretazione giurisprudenziale, esigenze di politica criminale e garanzie individuali.