La soluzione al problema dell’eccessiva durata dei processi si è purtroppo trasformata essa stessa nel problema, con la recente riforma apportata dal Governo alla Legge 24 marzo 2001, n. 89, nota come “Legge Pinto”, introdotta in Italia su impulso della Comunità Europea a seguito delle ripetute condanne che l’Italia stava subendo da parte della Corte di Strasburgo. Essa doveva costituire un tassello fondamentale per l’attuazione dei diritti fondamentali, attuativa del principio sancito dall’articolo 111 della Costituzione, primo comma e dall’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, con l’adeguamento dell’ordinamento interno all’ articolo 13 della C.E.D.U., che impone agli Stati membri di disporre di un rimedio effettivo per le violazioni dei diritti sanciti dalla Convenzione, prevedendo un indennizzo per il danno causato dal mancato rispetto del termine ragionevole di conclusione del processo, a carico del Ministero della Giustizia. Negli anni successivi alla crisi economica, la portata effettiva della legge Pinto è stata tuttavia fortemente limitata da due fattori: 1) il primo è stata la Legge di stabilità 2016 che ha introdotto dei limiti significativi all’indennizzo, stabilendo i tempi esatti entro i quali la durata del processo si presume ragionevole, nonché fissando alcuni casi di esclusione per presunta corresponsabilità del danneggiato; 2) il secondo è l’inadeguatezza del Ministero della Giustizia a far fronte alle numerosissime condanne inflitte, contenute nei decreti delle diverse Corti d’Appello. Ciò è stato sicuramente dovuto ad enormi carenze gestionali/strutturali, alle quali si è cercato di far fronte mediante l’introduzione di un modulo “Pinto” creato ad hoc e previsto dall’ articolo 5-sexies che i creditori devono inviare al Ministero della Giustizia che dovrà emettere l’ordinativo di pagamento entro sei mesi.
Seppur per i crediti sorgenti da decreti emessi successivamente al 31 dicembre 2021, il Ministero della Giustizia aveva predisposto un diverso e più efficiente sistema, consistente in un applicativo informatico che sostituisce l’istanza suddetta che si inoltra direttamente dal sito internet dell’Amministrazione, accelerando –teoricamente – i tempi della procedura, tutti tali sistemi, non sono riusciti a garantire l’adempimento delle obbligazioni nascenti dei decreti di condanna, sicché si è generato un consistente contenzioso in ottemperanza che ha gravato in misura notevole dinanzi ai TT.AA.RR., che ha comportato un raddoppio di spesa anche per il Ministero che ha dovuto, poi, rimborsare anche gli oneri per la procedura amministrativa. Proprio allo scopo di risolvere a tale iperproduzione del contenzioso in ottemperanza, il Governo con la Legge 30 dicembre 2024, n. 207 (Legge di Bilancio 2025), ha introdotto nell’articolo 5-sexies della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Legge Pinto) il comma 12-bis che ha previsto la possibilità per i creditori di ripresentare la domanda di indennizzo senza inoltrare il modulo ex articolo 5-sexies, ma attraverso una piattaforma informatica denominata “Siamm Pinto Digitale”, già in uso per il pagamento delle somme liquidate dal 1° gennaio 2022, estesa ora a tutti i debiti del Ministero per equa riparazione. Ciò che, però, ha generato le maggiori incertezze applicative, è stata la nuova previsione normativa contenuta al terzo periodo dello stesso articolo modificato secondo cui, a partire dal 21 gennaio 2025, per due anni resteranno sospesi tutti i giudizi di ottemperanza in corso e sarà inibita la possibilità di presentarne di nuovi. Di conseguenza, seppur con il pregio di creare una deflazione del contenzioso esecutivo, si è impedita di fatto la proposizione di nuovi ricorsi in ottemperanza, i quali vengono dichiarati irricevibili o improcedibili, vincolando così il creditore a quella che nel primo periodo della norma è presentata come una facoltà. Si tratterebbe, quindi, di una “scelta obbligata” per gli esecutori che lascia- quantomeno- un ampio dubbio di costituzionalità. Non sarebbe, infatti, legittima un’interpretazione del nuovo articolo 5-sexies, comma 12-bis che vada a sospendere indistintamente tutti i giudizi sorti da ricorsi in ottemperanza già presentati e che impedisca la proposizione di nuovi ricorsi per due anni: tale formulazione abolirebbe, secondo tale lettura, la tutela giurisdizionale per l’esecuzione di un Decreto di condanna nel tempo necessario all’evasione delle istanze presentate mediante applicativo telematico fino al 31 dicembre 2026, con un palese ed evidente contrasto con gli artt. 24 e 111 della Costituzione, ovvero quelle stesse norme cui la Legge Pinto mirava a dare attuazione. La scelta risulterebbe irragionevole da ogni punto di vista, poiché la sospensione di tutti i giudizi genererebbe sì un alleggerimento del ruolo per il 2025 e il 2026, ma poi successivamente si accumulerebbe al termine della stessa. Già in passato la Corte Costituzionale aveva avuto modo di scrutinare interventi normativi che, di fatto, svuotavano di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore, ritenendoli giustificati, sul piano costituzionale, da particolari esigenze transitorie, ma a due condizioni: 1) che lo svuotamento fosse limitato ad un ristretto periodo temporale; 2) che le disposizioni di carattere processuale che incidono sui giudizi pendenti, fossero controbilanciate da disposizioni di carattere sostanziale che, a loro volta, garantissero, anche per altra via, che non sia quella della esecuzione giudiziale, la sostanziale realizzazione dei diritti oggetto delle procedure (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 12.07.2013 n. 186). La nuova norma, quindi, appare incostituzionale, ponendosi non solo in contrasto con l’art. 24, Cost., poiché sostanzialmente vanifica gli effetti della tutela giurisdizionale già conseguita dai numerosi creditori procedenti nei giudizi esecutivi o di ottemperanza, ma anche con l’art. 111, comma 2, Cost., in quanto in palese violazione del principio di ragionevole durata del processo. Nonostante tali rilevanti questioni di legittimità costituzionale, al momento molti TT.AA.RR. sembrano seguire la linea di sospendere indiscriminatamente tutti i giudizi di ottemperanza incardinati entro il 20 gennaio 2025, relativamente a decreti di Corte di Appello emessi entro il 2021, a prescindere da ogni altra variabile del caso. Di diverso parere, invece, il Consiglio di Stato, sezione III, Ordinanza 21 marzo 2025, n. 2369, il quale ha invece fatto propri i principi della Consulta sopra menzionati, chiarendo che “la garanzia della tutela giurisdizionale assicurata dall'art. 24 Cost. debba comprendere anche la fase dell’esecuzione forzata, in quanto necessaria a rendere effettiva l’attuazione del provvedimento giudiziale”, precisando che “la misura legislativa che incida sull’efficacia dei titoli esecutivi di formazione giudiziale sia legittima soltanto se limitata ad un ristretto periodo temporale e compensata da disposizioni sostanziali che prospettino un soddisfacimento alternativo dei diritti portati dai titoli, giacché, altrimenti, la misura stessa vulnererebbe l’effettività della tutela garantita dall'art. 24 Cost., determinando inoltre uno sbilanciamento tra l’esecutante privato e l’esecutato pubblico, in violazione del principio di parità delle parti di cui all’art. 111 Cost.”. Sarebbe allora auspicabile che, a breve, sulla questione vi sia un intervento legislativo che possa fare chiarezza su tutti tali aspetti ancora molto controversi e che possa fornire indirizzo univoco a tutta la magistratura proprio nella delicata fase esecutiva, affinché non si vanifichi l’effettività della tutela dei cittadini.
